Immagine: Eikon (icona)
Un’evoluzione dell’immagine in Occidente è rintracciabile a partire dalla guerra alle immagini che ebbe luogo nell’ambito della cristianità intorno al 700 d.C.
L’iconoclastia è motivata dalla sinergia di tre culture tendenzialmente aniconiche che confluiscono nel primo cristianesimo. Si tratta della cultura greca che è al servizio della verità astratta, di quella musulmana consacrata al Corano e alla trascendenza assoluta di Allah, e di quella ebraica governata dal timore di nominare la divinità.
A queste tradizioni il cristianesimo contrappone la novità dell’incarnazione di Dio, con una nuova maniera di concepire l’immagine: proprio grazie a questo importante postulato della fede cristiana, lo scontro sulla legittimità dell’immagine si conclude con una ferma presa di posizione a suo favore, che ha dato input a tutta l’arte successiva. L’immagine, o icona, non è solo permessa ma incoraggiata come un valore aggiunto della fede, è anzi espressione specifica dello spirito cristiano: attraverso il tipo (umano) che viene raffigurato lo sguardo accede al prototipo (Cristo).
Attraverso il volto di Cristo si accede a Dio. L’immagine rimanda alla Verità come la creatura al Creatore, di conseguenza viene esaltata come rappresentazione della trascendenza, fino a diventare un sostegno retorico, una didascalia alla Sacra Scrittura, importante supplemento per la lettura. La tradizione fa risalire addirittura all’evangelista Luca la prima icona della Vergine Maria, e da questo momento la raffigurazione dei protagonisti dei vangeli diventa uno dei temi principali della pittura.
La storia dell’immagine è strettamente legata a quella della visione, la quale implica l’occhio e la luce.
Nella pittura antica, fino all’età medievale, ciò che governa la visione è un misterioso organo trans oculare, che irradia dall’occhio dirigendosi verso l’oggetto, si fonde con esso e ne assorbisce i colori. L’oggetto dipinto appare raggiante, di uno splendore generato da una luce che viene da dentro, non da una fonte luminosa esterna, luce che quindi non causa ombra.
E’ solo alla fine del XIV secolo, nel Rinascimento, che questa visione cambia, anzi si ribalta addirittura, il cono visivo invece di partire dall’occhio proiettando la luce interiore sull’oggetto si rovescia. Da questo momento è l’oggetto a proiettare la propria luce nell’occhio, il quale viene ridotto a strumento, non più finestra attraverso cui il mondo si incontra con la persona, non più espressione dell’anima. Il mondo imprime la propria immagine sulla retina e questo è un dato puramente neurologico, allo stesso tempo la luce diventa un fenomeno puramente esteriore.
Si assiste a una progressiva riduzione -e esaltazione- dello strumento oculare come organo attraverso il quale l’oggetto viene recepito, registrato. L’occhio, separato dagli altri sensi, diventa predominante ma in cambio perde la sua connaturalità con l’oggetto. Dal rinascimento lo sguardo non si esercita in una ascesi, non è orientato verso la trasfigurazione dell’oggetto tramite un contatto sostanziale e profondo, viene invece deviato mettendosi al seguito delle scoperte scientifiche: prospettiva, anatomia, microscopio, telescopio, fotografia. Anche la stessa parola osservazione indica la visione in riferimento a uno strumento e la ricerca sulla luce si trasforma nell’individuazione di una fonte esterna, trovando la massima enfasi un secolo più tardi, nel Barocco. Da allora la pittura intende descrivere solo questo.
Il significato di “luce” in latino è doppio: lumen è la luce che esce dall’occhio illuminando l’oggetto, lux è la luce che entra nell’occhio dall’esterno. Un occhio che ricerca il suo lumen è molto diverso da un occhio che cerca la lux. Il lumen parte dall’uomo e proietta luce sul mondo, la lux parte dal mondo e proietta luce sull’uomo. Il primo caso richiede alla persona una parte attiva, si può dire che nel cambio di paradigma la pittura ha guadagnato la lux ma ha del tutto perduto il lumen.
L’inizio di un recupero dello sguardo originario si annuncia nell’ottocento a partire dalla contemplazione della natura e la pittura en plein air si colloca come la porta per il nuovo paradigma.
Da allora dipingere en plein air con quello spirito originario significa saper dipingere anche per chi usa l’atelier.
Chi dipinge en plein air non fa semplicemente pittura di paesaggio, innanzi tutto rinuncia all’immagine pittoresca. L’occhio che si esercita nell’osservazione della natura viene iniziato alla comprensione effettiva degli elementi della pittura: linea, tono e colore e allo stesso tempo la mano, costretta a adattarsi ai veloci mutamenti della luce, acquista scioltezza e abilità.
Credo che i pittori inizialmente abbiano deciso di dedicarsi a questa modalità con un intento romantico, che li conduceva fuori della città e della tecnologia e presto debbano essersi scontrati con i cambiamenti imposti dalla luce del sole che in un primo tempo li ha condotti a inseguire la luce di un momento.
Tuttavia anche questo era un modo per cristallizzare l’immagine, il tipo di sguardo non cambiava, la visione era la stessa: si trattava sempre del cono rovesciato, che dall’oggetto si proietta nell’occhio.
Sebbene i quadri degli impressionisti si mostrino vaghi nelle forme con quelle tipiche pennellate guizzanti, veloci, adatte a catturare la luce di un attimo, il tipo di immagine rimane simile a quella del passato.
L’intento originario di fissare sulla tela un momento unico dello scorrere delle stagioni è ancora dipendente dalla lux, si realizza bloccando la visione artificialmente, come in una fotografia, poiché dipingendo nella natura una fonte di luce unica esiste solo in un attimo, dopo di che si sposta.
Il cambiamento vero e proprio arriva a partire dalle “Petite Sensations” di Cézanne: si tratta qui dell’esigenza di restituire le esatte percezioni visive che la luce sulla natura comunica di volta in volta, ogni colore, individuato nella sua essenza e steso esattamente al suo posto, torna ad essere illuminato da dentro.
E’ l’occhio a illuminare il mondo, è questa la resurrezione di quello sguardo originario animato dal lumen.
La luce del sole si muove creando luminosità, colori e forme sempre diversi.
Dipingere en plein air mira a un rinnovamento che coinvolge le basi specifiche del dipingere, consentendo di identificare tali basi nelle relazioni fra le diverse linee, i diversi toni, i diversi colori, soprattutto nelle relazioni fra questi elementi e riunisce tutte le percezioni facendole confluire in un'immagine personale ma non arbitraria.
Dipingere en plein air insegna a vedere, a dipingere e anche a capire esattamente cos'è che caratterizza la pittura.
Rivela l’esistenza di un disegno non accademico e funzionale al dipingere, risultato delle linee che si manifestano nel corso del passaggio della luce, un disegno che si fonda sulla composizione, che risulta dalle linee di confine fra pieni e vuoti e dai contrasti tonali, in cui nessuna parte predomina, che in questo senso insegue il principio dell’armonia che governa la natura.
Il disegno semplificato della composizione è in grado di individuare le forme partendo dalla esatta individuazione della porzione del vero. Il ragionamento successivo ha lo scopo di stabilire i diversi toni e le loro relazioni reciproche e infine la pittura, cioè la ricerca del colore, non può prescindere dalla comprensione delle relazioni reciproche fra i vari colori.
La percezione del colore è immediata, così come la ricerca della sua composizione materiale sulla tavolozza. Tutto questo non richiede un ragionamento ma una sensazione forte, alla quale nuoce una conoscenza a priori. Qualsiasi conoscenza richiede di essere passata al vaglio dall’esperienza personale.
In questo senso non esiste niente di più libero e liberante della pittura en plein air.