(Auto) Biografia
“Non mi sono mai posta il problema “perché si vive?” Per me è un miracolo…
… La domanda urgentissima, piuttosto, è: perché sei qui e cosa devi fare? A quella domanda quasi sempre rispondo “per scrivere”, con enorme presunzione. Testimoniare la bellezza, ecco, mi sembra una risposta. E poi amare alcune persone, potendo moltissime, tutto e tutti, ma è difficile”.
Cristina Campo
Fin dall’inizio il mio dipingere è stato mosso da sincerità, al di là delle convenienze ho cercato di seguire la mia ispirazione, la via dell’osservazione spassionata, cosciente e spregiudicata, l’analisi del visibile, percorso esplorativo che rende alla pittura il suo carattere di ricerca.
La via alla quale ho aderito mi costringe a superare innumerevoli convenzioni, in particolare quel mimetismo implicato in ogni figurazione, a andare oltre l’aneddoto, oltre l’apparenza, oltre lo sguardo stesso, dove ogni soggetto diventa un pretesto per parlare d’altro.
Per approdare, a partire da un sentimento attuale, “contemporaneo”, all’essenza connaturata e eterna della realtà, della vita e della pittura stessa.
La mia vita inizia a Bari nel dopoguerra in una famiglia borghese.
A causa del lavoro di mio padre, ufficiale, ci spostammo a Lecce, dove ho vissuto la mia bella infanzia insieme a due sorelle più piccole.
Il gioco ha governato interamente quel primo tempo, col suo aspetto mimetico, che mi portava a osservare e copiare la vita degli adulti, e ancora di più con l’urgenza di sublimare, in fondo è stata la mia prima forma d’arte.
L'espressione nasce da un moto di empatia con il soggetto, ma finisce in quella necessaria presa di distanza che, sola, rende possibile la creazione: il mio percorso in arte fu un'evoluzione di questa scoperta infantile. La scuola mi derubò momentaneamente di quel mio ossigeno privato, innescando in me una spontanea ribellione, divenuta poi parte integrante del mio carattere.
Trasferiti a Roma fui introdotta alle cose dell’arte grazie all’antica passione di mio padre, che aveva dipinto lui stesso per un breve periodo, per questo al momento dell’iscrizione al liceo non trovai ostacoli.
Non credo si aspettasse da me che diventassi una pittrice, piuttosto pensava alla possibilità dell’insegnamento, che poi mi spinse in tutti i modi a realizzare.
Malgrado le sue idee conservatrici fu lui a regalarmi il primo cavalletto con i primi strumenti per disegnare, a organizzare la mia prima mostra e soprattutto a sostenermi economicamente per molto tempo.
Formazione
Ho frequentato il Liceo Artistico di via Ripetta negli anni della contestazione giovanile, avendo fin da allora come maestri pittori figurativi. Lo studio diventava finalmente un piacere perché concentrato sull’esercizio pratico di materie alle quali si rivolgeva tutto il mio interesse, oltre che guidato da persone di professionalità ineccepibile.
“Figura disegnata” era insegnata dal pittore e incisore Valerio Fraschetti, si basava sul disegno dal vero.
Soggetto erano i calchi in gesso di sculture classiche e nell’ultimo anno la modella. Parallelamente c’era lo studio di “Anatomia artistica”.
“Ornato disegnato”, insegnato dalla pittrice della Scuola Romana Marina Poggi, costituiva una iniziazione alla pittura, e consisteva in esercizi di colore e composizione a tempera su carta o tela con soggetto di fantasia.
Le lezioni di “Disegno geometrico e Prospettiva" del professor Fumanti e quelle teoriche di "Storia dell'arte” della professoressa Figurelli completavano la formazione artistica del liceo di allora.
Iniziai a dipingere in autonomia dopo la maturità e l’anno ”integrativo” del liceo, quando con la mia famiglia mi trasferii a Livorno dove sperimentai per la prima volta concentrazione e ispirazione nell’auto-isolamento e sostenuta dall’ascolto della musica.
Le mie storie emergevano dal profondo, con un significato oscuro anche a me, e si concretizzavano in composizioni di figure, dipinte a tempera su carta o tela.
Questo lavoro giovanile fu esposto nella mia prima mostra personale, il 5 aprile 1975, nei locali dello Sporting Club - Teatro Margherita a Bari.
Avevo scelto come intestazione della brochure: “La sincerità è l’unica regola”.
Tornati definitivamente a Roma, mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti scegliendo il corso di pittura di Alberto Ziveri, esponente della 'Scuola Romana', “definito da Roberto Longhi il maggiore pittore realista italiano” allora vivente.
Il corso risentiva dell’esperienza personale di Ziveri di resistenza all’astrazione, la prima responsabile della “morte della pittura” secondo gran parte dei pittori figurativi della sua generazione
Il metodo di insegnamento era fondato sull'esperienza concreta, pressoché privo di teoria, i colori venivano considerati soprattutto nella pratica della tavolozza.
Era una concezione della pittura dichiaratamente in opposizione alla tendenza del concettuale, che intendeva restituirle la sua storica connotazione di mestiere, una visione materialista e maschilizzata che concepiva la pittura come lavoro e fatica e il pittore come un “operaio” col suo orario e sudore quotidiano.
Quello che tuttora mi rende cari quegli studi è lo spessore storico, il riferimento a Delacroix e soprattutto al realismo antiborghese di Courbet, il carattere anti accademico che promuoveva un tipo di pittura priva di compiacimenti, estemporanea, abbozzata, stimolando l’attenzione verso ogni soggetto, e quello umano veniva trattato come qualsiasi altro.
Ziveri stesso era di poche parole, il suo insegnamento l’ho colto nella pratica, quando davanti al mio cavalletto e col pennello in mano l’ho visto operare sulla tavolozza.
Sicuramente è stato molto importante per me averlo come maestro e a lui devo la dedizione esclusiva alla pittura che ha caratterizzato il mio percorso, malgrado le tentazioni a deviare non mi siano mancate.
Nel suo corso mi è apparsa chiara quella paradossale necessità di procedere in pittura come per distruggere piuttosto che per costruire, la rivelazione che nel processo creativo si deve perennemente ricominciare da zero.
Prime opere
Negli anni dell’Accademia, mentre ancora vivevo con la mia famiglia, dipingevo dal vero nature morte e ritratti di amici; la mia prima opera, realistica, fu un olio su tela 100x80 cm, con figure su fondo scuro, per il cui soggetto mi servii di alcune foto da me scattate nel corso di un concerto improvvisato con amici all’aperto e di notte. Era la prima volta che lavoravo dalle foto, la mia inesperienza di allora è ravvisabile nei contrasti accentuati e nella scarsa coloritura.
Quando finalmente andai via di casa iniziai la mia vita di pittrice sui due binari paralleli degli studi estemporanei e delle opere più elaborate, che non ho mai abbandonato.
Queste ultime richiedevano un tempo di progettazione in cui l’idea mi guidava alla ricerca del soggetto, per il quale mi servivo di foto tratte da riviste femminili e assemblate in una composizione.
La tecnica era un olio a “velature” su grandi tavole di legno. La ricerca di verosimiglianza o il "finire" non sono mai state fra le mie finalità e sulla superficie non preparata del legno, di proposito, rimanevano visibili le venature, le velature della materia pittorica e anche gli errori del disegno.
Il ricordo dell’accademia e di Ziveri è ancora evidente in queste prime opere, dove il colore ancora locale e definito dal classico chiaroscuro dipende dall'oggetto più che dalla luce, il che rende quella pittura ancora letteraria, dipendente dal racconto, lontana dalle conquiste della pittura del novecento.
Tra l’altro negli anni ‘80, nel mentre che la pittura languiva, d’improvviso il figurativo sembrava tornare in auge con la Transavanguardia, la Pittura Colta e Anacronistica, ma in realtà si trattava di ennesime operazioni di arte contemporanea che non prendevano le mosse da una ricerca genuinamente pittorica.
La prima di quelle mie grandi opere, un olio su tavola 170 x 250 cm. dal titolo “I Funerali”, un omaggio all’amato Courbet e alla sua “Sepoltura a Ornans”, doveva essere idealmente la dichiarazione del mio distacco ufficiale dall’Accademia e dalla scuola di Ziveri.
L’amicizia con il danzatore e coreografo Enzo Cosimi e la possibilità di seguire assiduamente i suoi spettacoli fin dalle prove, mi consentì un ulteriore approfondimento della figura umana nel movimento. I concerti, il teatro, la lettura e la scrittura, insieme al femminismo, unico fronte politico che mi ha vista attivamente schierata, furono fonte di ispirazione e contribuirono alla mia formazione di artista.
A motivo della scarsa facilità che ho sempre avuto a muovermi nel mondo dell’arte ho spesso esposto in spazi alternativi. Fra queste esperienze la più memorabile per me, fu la mostra al Padiglione Borghese del 1980, uno spazio provvisorio fatto erigere nella villa dal sindaco Nicolini per gli spettacoli di teatro e danza.
La mostra era una doppia personale col pittore Carlo Carfagni dal titolo “Il buio acceso” e consisteva in una performance nel corso della quale, dal buio, emergevano i nostri grandi quadri uno alla volta, ognuno con la sua musica di sottofondo.
Conobbi in questa occasione l’allora giovane critico Paolo Balmas, che scrisse un breve testo per la rivista d’arte Il segno di cui era direttore, e che per qualche anno seguì l’evoluzione della mia pittura.
Paesaggio
In principio fu la luce. Come i primi pittori dell’ottocento la scoperta della luce fu una grazia che mi investì nel dipingere fuori dallo studio: da quel momento cominciai a intravedere una risposta concreta alla mia domanda sulla sostanza della pittura e questo costituì, per la mia pittura, un autentico cambio di paradigma.
Alla pratica “en plein air”, adesso nuovamente in voga, ero già stata iniziata da alcuni pittori americani di passaggio a Roma, insieme ai quali avevo dipinto.
Ancora prima, ai tempi dell’Accademia, l’argomento che avevo scelto per la tesi finale verteva sui Macchiaioli, un fenomeno considerato provinciale nel panorama della pittura moderna, che già allora mi aveva appassionata e impressionata molto, ma che compresi davvero solo quando iniziai io stessa a dipingere metodicamente all’aperto nella seconda metà degli anni ‘80, quando mi trasferii in campagna nei pressi di Firenze. Nella massima concentrazione che mi offriva quella situazione dipinsi ogni giorno, a tutte le ore, a qualsiasi condizione metereologica, focalizzando la mia attenzione sulla luce piuttosto che sul soggetto: mi apparve evidente che la peculiarità del linguaggio pittorico è da ricercare nella luce solare sulla natura. Per cogliere ciò che emerge inaspettatamente e per breve tempo occorre una buona dose di irrazionalità, oltre che un tratto veloce e spontaneo e uno sguardo acuto, sempre vergine. Dipingere en plein air, se lo si fa correttamente, costringe alla sincerità.
Dipinsi una serie di paesaggi "alla prima" su un formato più piccolo, con una pittura che si andava via via arricchendo di materia oltre che di colore e tono.
Funzionale al mio esercizio en plein air fu la visione dei quadri di Morandi nel museo di Bologna a lui dedicato, che mi iniziò alla comprensione del tono, un mondo che ignoravo, che da allora ho preso ad esplorare. Entrambe le esperienze mi fornirono la chiave per entrare in una sensibilità più autenticamente pittorica, in cui la forma appare tramite la luce piuttosto che col disegno: al disegno subentrò il colore, alla colorazione la pittura.
Vedere il colore perennemente rinnovato dalle mutazioni della luce mi consentì di superare definitivamente l’idea del colore/tono locale e conseguentemente di staccarmi ulteriormente dalla descrizione dell’oggetto. La figurazione rimaneva importante solo nella misura in cui mi consentiva di entrare nell’astrazione.
Per le figure iniziai a usare anche altre tecniche, come pastelli e tempere, smisi l’uso delle foto e tornai a inventare.
Poco dopo conobbi il pittore statunitense Anthony Lombardi col quale iniziammo un sodalizio a vari livelli, che tuttora va avanti.
Al contrario di quello che si diceva in accademia, non ho mai visto la pittura come un lavoro che esclude la vita intima, anzi la penso profondamente intrecciata con essa e come donna non ho timore di questi intrecci.
Di certo la mia pittura risente della mia vita e la maternità in particolare mi ha offerto di volta in volta l’occasione per un rinnovamento dell’ispirazione, cosa che non è mai successa con i due lavori che ho svolto per qualche tempo: l’insegnamento nella scuola pubblica e la creazione dei bozzetti per i tessuti.
Forse è anche per questo che ho preferito il lavoro casalingo, ripercorrendo apparentemente le orme di mia madre.
Dopo la nascita del primo figlio, nel 1990 ci trasferimmo per un anno a Chicago, dove - con il bambino che giocava ai miei piedi - iniziai a dipingere quello che vedevo dalla 'bay windows' dello studio, mettendo a frutto l’esperienza en plein air. Le vedute urbane di Chicago sono dipinti a olio su pannelli di formato medio piccolo, ricchi di materia.
La pittura negli Stati Uniti era ancora apprezzata, al contrario che in Italia, perciò non ebbi problema a trovare gallerie, nelle quali continuai a esporre anche al ritorno a Roma.
Intermezzo astratto
Dopo la morte di mio padre tornammo definitivamente a Roma e dopo la nascita del secondo figlio affrontai per la prima volta l’astrazione.
Stimolata da un lato dagli studi sul colore di Goethe e della Bauhaus, e dall’altro dalla lettura dei testi teosofici di Rudolf Steiner e Helena Blavatsky, mi volgevo all’invisibile, dimensione per me non nuova.
In quel momento di estrema concretezza ne sentivo nostalgia, e la pittura mi veniva in aiuto ancora una volta, con forme astratte che nascevano spontaneamente nel praticare una sorta di pittura automatica.
Le forme si concretizzavano sulla carta in disegni tramite matite colorate, dove sul fondo nero i colori si tarsfiguravano in luce, o anche tramite una tecnica mista di inchiostro e colla su piccolissimi cartoni.
Realizzati con i colori dello spettro solare, puri, molto diversi da quelli dei quadri figurativi, questi lavori sono stati un'importante, meditativa, riflessione sul colore in sé.
Con il titolo di “Pensieri microscopici” li presentai in una mostra nella casa di Pino Casagrande.
Vedute di Roma
Allo stesso tempo iniziavo a dipingere le “Vedute di Roma” come una citazione di quella Scuola Romana che mi aveva iniziata alla pittura, come quei pittori non intendevo dipingere scorci pittoreschi o effetti.
Dipingere Roma significa per me soprattutto inseguire l’armonia astratta, delicatamente tonale, che emerge tramite la luce sulle costruzioni di diverse epoche che popolano questa rara città.
Forte della costante e ininterrotta ricerca en plein air, ho dipinto le vedute romane nella concentrazione che mi offre il mio studio, dalle foto scattate in un mio personale, appassionante, “reportage” della città.
Solo la visione del vero è in grado di descrivere la sostanza sfaccettata della realtà, tuttavia la mia intenzione, davanti al vero come davanti a una foto, non è quella di copiare ma quella di descrivere l’emozione suscitata in me dalla luce. Usando le foto per dipingere ho dovuto ulteriormente ‘forzare’ l’occhio, per vedere ciò che non è subito visibile in una foto, a iniziare dai colori.
Con il tema delle vedute di Roma approdai alla galleria Andrè, che in quel momento stava cercando proprio quel soggetto. Con i galleristi, Silvie Andrè e Benito Recchilongo, iniziai una collaborazione durata circa 10 anni.
Nature morte
A distanza di 8 anni dal secondo figlio nacque il terzo e ci spostammo nella casa in cui viviamo tuttora, dalle cui grandi finestre dipingo tuttora vedute, come feci a Chicago.
In quel momento mi sentivo divisa tra diverse tendenze, innanzitutto volevo uscire dal tema delle vedute romane, nel quale il successo nella galleria mi aveva rinchiusa.
Tornai così alle nature morte, un soggetto dal quale mi ero distanziata, con una serie: i “Disordini”, come li intitolai, rappresentano non solo la confusione di una tavola dopo i pasti, ma anche il rumore di quegli anni, sotterraneo e percepibile forse solo a me, della vita che si va tessendo.
Il soggetto mi veniva offerto dalla luce diretta del sole di mattina, sul tavolo della cucina con i resti della nostra colazione, dopo che la casa si era svuotata.
Era una luce che concedeva un tempo brevissimo, da assimilare con la coda dell’occhio, imponeva la mancanza di definizione che andavo sempre cercando e in questo senso era in totale opposizione alla tradizione, dalla quale, ancora una volta, era la luce che mi offriva una via di uscita.
Il tema delle nature morte divenne trainante per le lezioni ai miei allievi, lezioni in cui io stessa dipingevo insieme a loro.
Figure
Nel mio caso questo soggetto è stato sempre motivato da una passione per la persona, per la storia e per il corpo umano, è il soggetto che maggiormente mi ha tenuta legata alla pittura figurativa.
Dopo una pausa di decenni, tornai ad affrontarlo come “da zero”, col tema dei bagnanti, noto alla pittura di tutti i tempi, che continua tuttora a attrarmi.
La ragione di questa attrazione non è solo la storicità del tema, ma soprattutto il fatto che il racconto del nudo sull’acqua converge necessariamente sulla luce, poichè l’incarnato sprigiona tutta la sua peculiare luminosità in quel contrasto particolare con i toni freddi dell'acqua e del cielo
C’è poi la profondità del tema, nelle persone svestite che popolano le spiagge italiane d’estate avverto l’anima: la rilassatezza, la mancanza di artificio rende i movimenti spontanei, qualcosa di molto diverso dalle pose della modella nello studio, ed è questa la ragione principale per cui preferisco dipingere le figure usando le foto.
Spoglio le persone del tutto, con l’unica intenzione di descrivere un popolo di persone colte segretamente nella loro verità. Di genere differente, simili ma diverse al tempo stesso, in loro il nudo è espressione di una originaria unità, di una condizione ideale e perduta di autenticità.
Le mostre con questo soggetto sono state molte, in Italia e negli Stati Uniti.
Il tema dei bagnanti è stato quello che mi ha introdotta agli altri temi che hanno protagoniste la figura. espressi negli anni a seguire fino ad ora in diverse serie ricorrenti: danzatori, party, archetipi, ecc.
Al 2019 risale la mia prima grande mostra personale, nella BaArt Gallery di Bari, che da allora mi rappresenta.